Un temibile ed oscuro presagio incombe sulla domenica: il lunedì.
La vita di un intern può essere molto gradevole: se si hanno vent’anni e sì è scelto di fare un mesetto di esperienza in Cina, per inframmezzare la vita universitaria e fare curriculum. In un mese non si fa a tempo ad essere travolti dalla snervante consuetudine comportamentale degli autoctoni e si è ancora nel pieno periodo di infatuazione da viaggio turistico. Ma si fa a tempo a fare baldoria la sera, in uno dei vari, tanti locali che la città offre.
Se invece si è un canuto intern trimestrale post laureato, la vita shanghaiana consta di molteplici incombenti da evadere. L’esemplare in questione, è plausibilmente in cerca di qualche offerta di lavoro. Ciò lo induce a dover lavorare con costanza e impegno anche oltre le ore di ufficio, per guadagnarsi un’offerta presso l’azienda ospite, o almeno una buona lettera di referenza. Ma non basta. Ci sono i network, i contatti da tenere, gli eventi cui partecipare.
Si chiama “guanxi”, ed è l’insieme di interrelazioni che bisogna necessariamente tessere per poter sperare di ottenere un posto. É il corrispettivo del nepotismo/clientelarismo nostrano, ma che qui assume talvolta sfumature di grottesco.
Voci indiscrete – ma ben informate – suggeriscono che talvolta gli amici asiatici, selezionino i propri dipendenti in base a scriminanti quali la foto, il paese di provenienza, il caso o la simpatia (perché, per l’appunto, persona conosciuta ad un evento di networking o segnalata).
Ma la vita del nostro intern trimestrale non si esaurisce in queste attività: c’è anche da selezionare le offerte di lavoro (lavoraccio) e candidarsi: cosa che porta via già di suo un bel po’ di tempo. Se poi aggiungiamo la connessione internet in cablatura stile tardo Impero Romano, con velocità di navigazione quasi pari a quella degli anni ’70, quando il web era un prototipo, allora le tempistiche si allungano. Ma solo quel tanto che basta per voler spaccare tutto …però in maniera molto zen!
Poi ci sarebbe anche da vivere: tipo fare la spesa, il bucato, lavarsi. E magari un po’ di vita sociale ogni tanto mettiamocela. Così il povero vegliardo intern, accusa un po’ di stanchezza.
Quindi, eccolo sopravvivere durante la settimana lavorativa – con qualche puntatina di Bar Rouge infrasettimanale – sino a raggiungere l’agognato venerdì: giorno di partenza verso l’esotica Guilin.
Amena cittadina sud cinese, uggiosamente adagiata sulle rive del fiume Lì. Ottima meta per staccare un po’ e vedere posti stupendi distraendosi un poco.
Metro gremita fino all’aeroporto: tac. Ritardo da inguaribile ritardatario: tac. Ceck-in con acqua alla gola e corsa disperata: tac. Epica ronfata durante il volo: tac. Contrattazione gestuale col tassinaro in loco per raggiungere la destinazione: taaaac.
Notevole sorpresa è il B&B che accoglie le mie stanche spoglie, il quale si attesta ad essere di ottima qualità. Sonno dei giusti – secco come la bella addormentata nel chiosco – e la mattina si parte con colazione cinese, così, tanto per provare com’è. Ed è buona, nonostante tutto: noodles al capello dell’oste, contorno con qualcosa non idenntificabile, ma rigorosamente fritto – indi: unto – e cane vistosamente malato che ronza fra i piedi, in cerca – alternativamente- di cibo/coccole/cibo/cibo/coccole/cibo/cibo/mosca/cibo.
Si parte verso la regione delle risaie a terrazza. Tre ore di pulmino cinese, gremito di cinesi. Gremito perché quando finiscono i posti ordinari, si iniziano ad aggiungere micro-sedili di plastica, qua e là dove c’è spazio, dove siederà precariamente l’eletto e/o il prescelto: colui che farà il famoso e tradizionale viaggio “culo piatto – schiena rotta – gambe anchilosate – rischio volo di muso ad ogni frenata, con dentiera sul cruscotto”.
Tre ore. Tre ore di viaggio in cotal modo. Tre ore di guida spericolata. Perché l’autista deve superare. Non importa chi o cosa. Lui lo deve fare. E deve suonare il clacson. Sempre!
La strada è costellata di scene indimenticabili ed indescrivibili, tutte tipicamente cinesi. All’arrivo inizia la gita vera e propria, prima in funivia, poi a piedi lungo i dolci clivi ondeggianti, che disegnano tutta la vallata sino a lambire l’orizzonte. Qualche tradizionale e ligneo villaggetto rompe le curve tratteggiate sulle montagne e riempite da fitte pennellate di verde.
Ovviamente ci si perde fra i sentieri, tutti fatti a scalini. Qua e là qualche venditore ambulante di cose magnifiche: tessuti locali (spacciati come artigianali, ma ormai industriali), o le tipiche cianfrusaglie che solo il tipico turista potrebbe comprare. Poi l’ambulante con l’alveare pieno di api sul bancone, che vende il miele cristallizzato naturalmente. Uno spettacolo: visivo, olfattivo e papillare.
Si arriva zaino in spalla al paese di Dazhai, dove si vedono le anziane del luogo ancora vestite con i costumi tipici e con i capelli nero corvino intrecciati sul capo, poiché non li tagliano mai per tutta la vita. Tutto profuma di brace, grazie ai locali che continuano a cucinare il riso dentro al bambù.
L’ostello è accogliente e confortevole, tutto costruito in legno. La stanza è spartana, ma amabile e i compagni di stanza – Arturo il ragno gigante, Gerberto la blatta e Luigi la tarma – sono simpatici e ospitali. Agenore il ratto non si vede, ma si sente ogni tanto sul tetto. Il bagno – eleviamolo a cotanto rango – è definibile come una stanza con un buco, dal quale promana un anticipo di inferno, che si sparge notte tempo per la stanza. Ingegneria idraulica questa sconosciuta: se a Shanghai non hanno ancora scoperto il sifone, direi che le speranze di avere a Dazhai più di un buco diretto nel terreno, sono vane.
La porta della cosa (perché non è un bagno, ma una “cosa”) è una chicca. In legno semi-putrescente e con chiari segni di cedimento, la quale tende ad aprirsi per mostrare al mondo tutta la beltade che custodisce. Il colpo di genio è che la si può chiudere solo dall’esterno e con lo spago girato su un chiodo fissato al muro. In generale, insomma, un luogo ove gli entomologi avrebbero potuto investire il loro tempo nel trovare nuove e variegate specie di esseri viventi sconosciuti alla classificazione di Linneo. Ma comunque bello, bello, bello.
L’indomani è di ritorno a Guilin, per poi spostarsi in pullman in in un piccolo villaggio lungo il fiume, dal quale prendere la bambù boat (tipica imbarcazione fatta di solo bambù) per percorrere le scure acque del fiume Lì, fra le montagne stondate dall’impeto della terra.
L’autista del pullman era probabilmente appena stato dimesso dall’ospedale psichiatrico. Perché va bene la guida sportiva, ma c’è modo e contesto. Se il contesto è: tornanti di montagna con pullman da 50 posti, strada bagnata dalla pioggia e carreggiata costantemente occupata da qualche carretto o pulmino, la cosa rientra nel tentato omicidio premeditato.
Tipo che il pazzo criminale ha fatto 2 km in contromano. Così, perché è primavera! E superava tutti in qualsiasi condizione: compreso un altro pullman a ridosso di un tornante con curva cieca. E dunque, affidando la mia vita al caso ed alla psiche disturbata del compassato autista, la scelta più razionale e logica che si possa fare è una e una soltanto: dormire.
La gita sul fiume è da togliere il fiato, fra le montagne a cucuzzolo – usate come location per il film Avatar – e la natura incontaminata. Bianchi cirri sullo sfondo di un cielo limpido si riverberano sul tremolio delle onde caliginose, mentre il barcaiolo timoneggia distrattamente sdraiato e piedi all’aria. Tappa su qualche scoglio dove ci sono ambulanti che vendono il pesce fritto e poi via ancora sulle acque fino al punto esatto in cui tutti fanno la foto col pezzo da 20 RMB, dietro al quale è disegnato lo scenario dei monti tondeggianti sul fiume.
Arrivati a Yangshuo bisogna farsi capire dal tassista col risciò a motore. La fortuna vuole che ci sia un giovane cinese con padronanza dell’inglese – una vera rarità da queste parti – che traduce e mercanteggia. La parte difficile è spiegare al driver che prima deve trovare una banca internazionale per far sì che lo si possa pagare, poi deve portarci fuori città nel B&B selezionato. Una piccola odissea, che si conclude in una piccola Itaca dove nessuno parla l’idioma di Albione.
Si finisce a cenare in un losco e arrabattato ristorante fuori città, dove l’ASL qualche cosuccia da ridire sulle cucine potrebbe anche avercela. Tentano di propinare del pesce non meglio identificato, volendone servirne non meno di un chilo. Dopo quasi mezz’ora di tentativi di comunicazione con traduttore automatico – per loro comunque incomprensibile -, gestualità italica e disperazione seguita da rassegnazione, il pesce (che avrebbero ucciso all’uopo) risulta salvo e il cenone si esaurisce in riso bianco e spinaci lessi. “Aglissimo, Alitissimo, Setissima!”
L’indomani si gira un po’ a piedi, fra i campi di loto a ridosso dei monti, sino alle porte della città, dove si prova l’espediente del moto taxi, il quale – ottemperando alla tradizione – rischia la propria e l’altrui vita ad ogni metro. Il puzzo di Baijiu (bevanda alcolica tipica, simile alla grappa) che promana dal Valentino Rossi di turno, agevola l’operazione.
Un giretto per le variopinte e rumorose vie della cittadina e poi la pedicure nella vasca dei pesci, dove strillo come una femminuccia, non appena immerse le fette. Cosa che va avanti per un buon dieci minuti, divertendo ed attirando i passanti. Roba da chiedere le provvigioni al negozio!
Tutto il resto è noia: il rientro all’aeroporto, il ritardo (gli aerei cinesi devono essere gemellati con Trenitalia) e il rientro notturno.
Cosa che il giorno dopo fa di me un essere metà sonnolente e metà rimbambito, al rientro sul lavoro. Là dove ho sperimentato anch’io il corpo “Avatar” come nel film: il mio corpo era lì, ma il mio cervello era a casa a dormire..
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