Thursday, November 12, 2015

In cerca di connessioni, tre colori e quattro toni

Giorno 1–GRIGIO: Come il cielo di Pechino al mio arrivo. Come il pickup che dall’aereoporto mi ha portato all’alloggio e i grattacieli che mi ritrovo davanti la finestra. Come l’umore di chi aspetta il viaggio della vita e viene accolto dalla pioggia. Come il senso di alienazione e l’eco di qualche “chi te lo fa fare” che hai lasciato dall’altro lato del mondo, ma che pure ti torna in testa.

 

D’impatto, Pechino è esattamente l’altra faccia della medaglia, che almeno una volta nella vita deve caderti davanti dopo aver lanciato in aria la moneta. E’ la parte del mondo in cui le prospettive si capovolgono, non solo l’orologio. Dove la lingua è una e una sola, il cinese, e tutto il resto è sorrido e ciao. L’inquinamento te lo senti addosso e, quando il livello sale, ti armi di mascherina, neanche fossi un allegro chirurgo. Pensi che questo basti a renderti un “insider”, ma ti sbagli e in realtà non ci hai capito niente. Anche la prima spesa è grigia, quando di fronte allo scaffale del supermercato ti chiedi cosa-è-cosa e alla fine ripieghi sugli spaghetti, import, e un articolato di sopravvivenza. Alla cassa, io e la commessa non ci capiamo: interviene l’amica provvidenziale conosciuta all’aereoporto, che il cinese lo mastica. Se la vede lei, io sorrido-e-ciao. Ritorno a casa, in esplorazione. Uno, due, tre bagni, un pezzo per ciascuno: la stanza doccia, la stanza lavandino, la stanza tazza. Una tazza che, a citare mio fratello, “manco i futurama”: si riscalda, si igienizza e non so che altro. Sulle prime vado cauta per l’aspetto, che ricorda una sedia elettrica, salvo poi scoprire che è il locus amenus della casa, quando la sera avanza e il condizionatore ha una programmazione “come mamma l’ha fatta”, solo cinese. La cena si risolve in una tazza di latte e biscotti. Per sollevare la gola provata dallo smog, un bicchiere dell’acqua appena comprata che, ahimè, scopro essere fruttata. Lo segnala un ideogramma sull’etichetta che anche un cinesino di due anni saprebbe riconoscere. Ma qui ho solo un giorno, quindi tutto regolare. Se mi fermo a pensare che sono a Pechino tutto sembra un sogno e un limbo contemporaneamente. La vocina nella testa, quella del “chi te lo ha fatto fare” cerca di prendere piede, poi un coraggioso “take it easy”! Un buon corso di sopravvivenza, se non altro.
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Giorno 2 –BIANCO –Come la neve che mi ritrovo fuori dalla finestra. Come la scelta di darmi una possibilità. Come il quaderno che inauguro durante il mio “induction day”, la mia prima connessione con il mondo cinese. Una lista di pericoli, consigli pratici e un accenno alla lingua. Una professoressa (rigorosamente native) introduce i quattro toni della lingua e la regola madre per cui il significato di ogni parola cambia in base all’intonazione con sfumature impercettibili. Neanche fossimo allievi della Callas! Ma è musicale, questo mi piace. Bianco, come il riso che accompagna la mia prima vera cena cinese: nessun morto e nessun ferito, no nausea o altri effetti collaterali –con buona pace di nonna Maria. Solo spezie e, di tanto in tanto, piccante in eccesso. Qualche momento di sconforto sul finale di giornata e la vocina, stavolta più debole, del malaugurio. Pochi secondi e scompare, forse sommersa dai rumori del traffico.12207968_10208480926287015_1236784760_n

GIORNO 3 –ROSSO: Come lo scenario che si intravede dalle vetrine dei locali del distretto 798. Come l’enorme masso che domina un incrocio dell’art zone, la prima briciola che mi semino per ritrovare la strada di casa. Come la scultura di un enorme mostro, col dito puntato a mo’ di raccomandazione, su cui mi distendo nel pomeriggio per scattare una foto. Come il colore della prosperità e della bandiera della Cina. Poi, dopo il grigio e il bianco, un tono caldo c’è sempre. Perché il terzo giorno mi ha aperto la bellezza del dettaglio, del particolare. La cura delle piccole cose, delle lavorazioni locali e la scoperta della vita che corre sulle strade principali, ma si sviluppa nei vicoli che aprono a piccoli spazi quadrati.

La cura delle piccole cose, delle lavorazioni locali e la scoperta della vita che corre sulle strade principali, ma si sviluppa nei vicoli che aprono a piccoli spazi quadrati. La ricerca del significato della street art, della storia dietro alla macchina governativa ed un’architettura che non lascia niente al caso. Settantadue ore che sono tanto e non sono niente.

 

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