Thursday, September 3, 2015

Le voci di Shanghai. Passeggiando fra i rumori sparsi nella città

 

La domenica è il giorno del riposo.

Ma non in Cina! Questa domenica, ad esempio, ho avuto la meravigliosa opportunità di essere gentilmente ridestato dal dolce suono di un martello pneumatico. Il fato ha deciso che fosse l’ora di sistemare la strada proprio sotto la mia finestra.

Ma ci dev’essere un oscuro ed arcano disegno divino che mi sfugge.  Gli operai si devono essere messi d’accordo con l’inquilino del piano di sopra, che domenica scorsa, alzatosi di buon umore, ha deciso che era giunto il momento di provare il trapano Black & Decker, bucherellando qua e là la stanza esattamente sopra la mia camera da letto. Ininterrottamente per due ore: che Dio l’abbia in gloria.. Forse che cercasse il petrolio?!

Di sicuro ha trovato una selva di nuovi insulti e maledizioni – per lui e sette generazioni a venire -, nelle quali ho applicato tutta la mia assonnata fantasia, condita da un’esperienziale gamma di frasi dialettali. Non esattamente traducibili e ancor meno riportabili.

La domenica è anche il giorno dei ritmi in slow motion e dell’appannaggio cerebrale. Il caffè – da buon provinciale ho portato meco la moka (che fa cacofonia, ma rende bene l’idea)- è un rituale indispensabile: lo bevo in piedi, assorto a guardare 5 vecchietti felici che puntualmente fanno ginnastica nel cortile prospiciente la finestra della mia cucina. E mi mettono sempre di buon umore.

Solitamente, nel giorno del sole, non si può sfuggire ad incombenti quali il bucato, il riordino o i piatti da lavare. Piatti che puntualmente dimentico nel lavandino (per la gioia dei coinquilini che mi sopportano) e con i quali si possono contare i giorni della settimana, come con la stratificazione delle ere geologiche. E meno male che le donne delle pulizie ci “lavano” il bagno ..sebbene con criteri discutibili: in effetti la prima settimana abbiamo dato una pulita alla “fuliggine” sulle piastrelle. Mi sono divertito a lasciare dei quadratini “com’era – com’è” per i posteri, proprio come hanno fatto i restauratori della Cappella Sistina.

L’ampio e bell’appartamento di cui disponiamo, è anche dotato di una futuristica lavatrice modello “Mao era ancora vivo”, che in casa amiamo chiamare “l’astronave”, per il delicato suono di turbina a reazione che accompagna il suo igienico moto. Ella (e non essa, poiché è dotata di anima e volontà proprie), possiede inoltre la capacità di essere imputabile per il reato di stalking: quando un lavaggio è finito, ogni, dico ogni, santo minuto che il Signore abbia fatto su questa terra, si sente una psicopatica musichetta da pianola elettronica, che ci avvisa che il viaggio interstellare è compiuto. E va avanti le mezz’ore.

Confesso di aver talvolta anelato di possedere un martello da cantiere, per sfondarla e distruggere sino all’ultimo chip che governa la suoneria. Il tutto però, sempre in maniera molto Bonzo tibetano.

Il fattore suono, accomuna molta strumentistica presente in casa. C’è forno a microonde, che emette un vago ronzio di sciami d’api che combattono con sciami di vespe, mentre sciami di mosche assistono alla scena, proprio durante il passaggio di sciami di calabroni. Insomma una sensazione tendente al vibrante. Ed ho anche il vago sospetto che emetta radiazioni nucleari, perché il cibo che esce da lì rimane caldo fino al giorno del giudizio. Ovviamente anche il microonde parte con la sua musichetta quando ha terminato il concerto di didgeridoo e continua la persecuzione sonora finché non lo si apre.

Poi c’è il condizionatore, che canta con un drammatico registro basso profondo, dando voce alle anime del purgatorio nell’eco di un hangar militare. E infine la pentola posseduta, che messa sul fornello, inizia a stridere, urlare, dimenarsi, borbottare, per poi incazzarsi di brutto quando l’acqua bolle. Il solo avvicinarsi comporta ustioni di secondo grado sul 33% del corpo (dati ufficiali dell’Istituto Nazionale Cinese per lo Studio di Pentole da Esorcizzare).

C’è anche da dire che il fornello ha la stessa potenza di fuoco della bocca dell’inferno e un consumo di gas giornaliero pari a quello dell’intera Basilicata durante tutto l’inverno.

I suoni strani accompagnano invero un po’ tutta la quotidianità della vita cinese. Ci sono musichette elettro-psico-sataniche dappertutto: nelle macchine, nei cellulari, nei cantieri, in metro, per strada, negli ascensori.

Gli ascensori sono qualcosa di particolare in effetti. Al loro interno non si può trovare il numero 4. Non esiste il quarto piano, il quattordicesimo, il ventiquattresimo e così via. Perché porta sfiga. La pronuncia cinese del numero quattro è foneticamente assonante alla parola morte, quindi, essendo loro ancora più superstiziosi di noi, hanno bandito il numero da ogni dove. Il calcolo dei piani è poi paradigmatico di come funzioni la logica cinese: non esiste piano terra, si parte dal primo piano. Il quarto, come detto, non esiste e in più si contano anche i mezzi piani. Quindi, ad esempio, con l’ufficio sto al sesto piano per l’ascensore, ma al terzo per la realtà.

La cosa viene percepita in maniera chiara facendo le scale: un altro mondo.

L’ascensore solitamente è un concentrato di fasto pacchian-barocco e tecnostentazione. Passata invece la soglia delle scale, si entra in una dimensione di fatiscenza e trasandatezza, buio, sporcizia e dubbi odori. Percorrendole per scendere dall’ufficio, potrebbe infatti capitare di trovare, nell’oscurità di un pianerottolo, un tizio completamente steso a terra, su dei cartoni, che dorme russando (true story!). Con cautela l’ho scavalcato, lasciandolo fra le braccia di Morfeo e portandomi nel cuore quella meravigliosa visione.Riva 03092

Qui si dorme ovunque. E quando dico ovunque, intendo veramente in ogni luogo. Il sonno è visto come il riposo dei giusti. Se dormi, vuol dire che sei stanco perché hai lavorato tanto. Quindi si vede gente che dorme in ufficio, in metrò, per strada, in macchina. Una volta ho trovato uno che si è fermato ad un semaforo, ha spento la macchina e si è messo a dormire coi piedi fuori dal finestrino.

Tanta stima.

L’immagine della quiete. Con ovviamente dietro tutti quanti che suonavano il clacson. Ecco un altro suono che accompagna Shanghai. Forse proprio la sua voce. Per strada è il suono preponderante, che fa invece il paio col silenzio assoluto dei motorini elettrici. Mezzi guidati da psicopatici che tentano in ogni modo di investirti. Vanno contromano, sui marciapiedi, passano col rosso, attraversano sulle strisce. Tutto in motorino. Tutto suonando il clacson: tanto è gratis!

Chi invece va in bici usa il clacson vocale, emettendo suoni simili alla tradizione bovara italiana, quando il fattore doveva arrestare il biroccio. La maggior parte poi è fan di Lucio Battisti e sperimenta com’è “guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire” (capire tu non puoi, tu chiamale, se vuoi, emozioni). Che io invece li chiamo disgraziati.

Altro rumore immancabile per strada è quello degli scaracchi, che segue uno schema tipico: tirare su dalla gola o dal naso con tipico raschio, rispettivamente, in tonalità acuto-amplificata o sordo-baritonale. Pausa, pausa, suspense. E poi giù una bella scatarrata. E non di rado capita che qualcuno venga preso dalla traiettoria balistica del denso umore bronchiale.

Ma in tre mesi si affina l’orecchio, come facevano i soldati al fronte. E dal fischio che fa la bomba si riesce a capire dove cadrà!

L’orecchio fino ormai fa distinguere anche il raschio dal ben più gioioso risucchio, che è il suono che immancabilmente si fa mangiando i noodles con le bacchette. Qui infatti bisogna dimenticarsi il galateo. È impossibile mangiarli senza aiutarsi col risucchio. In effetti prendere il cibo con le bacchette (anche cibo come il riso) può sembrare sciocco, o almeno poco funzionale rispetto alle nostre posate. Ma se ci si pensa, è la maniera più intelligente che l’uomo antico aveva per prendere il cibo senza toccarlo, usando una sola mano. Questo può far capire quanto sia antica e forte questa tradizione, che evidentemente affonda le sue origini in un tempo in cui non si poteva forgiare posate col metallo e farle in legno era poco pratico e ancor meno efficiente. Noi oggi vediamo la cosa con un po’ di spocchia dall’alto delle nostre forchette, ma ci dimentichiamo che prima del sei/settecento, non usavamo né le bacchette, né le posate, bensì direttamente le mani.

Così, infine, dopo la domenica da bella lavanderina assonnata, arriva inesorabile il lunedì e con lui la sveglia. Vorrei costruire la macchina del tempo per cercare chi l’ha inventata e scoraggiarlo dal donare all’uomo un oggetto così potente, che nelle mani sbagliate può essere molto pericoloso.

Ridestandomi come Dracula che si erge rigido e braccia conserte dalla bara e con l’elasticità cognitiva del mostro di Frenkenstein, ho affrontato il risveglio con u po’ più di brio, per l’arrivo dei nuovi intern. Un inglese e un italiano. Il primo è portatore sano di scarpa classica con punta quadrata (che in un paese civile dovrebbe essere illegale), ma è anche l’unico che capisce il mio umorismo pavese – più inglese di quello inglese -. Il secondo è meraviglisamente simpatico e affabile …ma ne parlo bene solo perché so che mi legge!!!

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